Di invasioni e rifugi. Del parto in casa.

Nei giorni passati, durante ore di attesa in un reparto di maternità, mi sono resa conto che non avevo mai fatto quell’esperienza. Nemmeno ero mai andata in un reparto maternità nell’orario di visita, quel rituale dell’invasione non mi è mai piaciuto. Non mi è mai piaciuto farlo, ancora prima che riceverlo.

La prima volta che ho partorito avevo vent’anni e avevo messo al mondo senza saperlo un guerriero rimasto troppo poco su questa terra. C’è da dire che avendo vent’anni è difficile che tu abbia visitato amiche che hanno partorito. Avevo vent’anni e me lo ricordo ancora lo shock delle visite, per cui giammai essere io a profanare i primi giorni. Anche se vedere qualcuno fa piacere, anche se lo si fa con affetto, anche se è tanto bello da fuori andare a far visita.

In questi giorni di visite nel reparto maternità guardavo quelle mamme da poco e riconoscevo sui loro corpi i segni del disagio.
Tu passi e loro si voltano impercettibilmente.
Entra nella stanza lo zio del letto tre (sei un numero di letto, non una persona) e loro si coprono con quelle lenzuola pesanti fino a sudare.
Vorrebbero andare in bagno ma non si alzano perché in stanza c’è, che caro a venire, un collega, o un superiore. Mio dio. Gente con cui sei abituata a interagire in configurazione tu tailleur-lui abito blu che si mette il pantalone beige (secondo loro disinvolto come nei loro casual friday), piglia un mazzo di fiori e viene in ospedale il giorno dopo che hai partorito. E tu schiacciata in un letto, mentre loro ti guardano dall’alto. E tu sorridi e speri che finisca presto. Come le violenze. Il corpo delle donne. Il terreno dell’eterno sopruso strisciante.

“Non ce la faccio più, non finiscono mai”

Gente non selezionabile. Vicini di casa, preti, amici d’infanzia, gente che accompagna gente, in un flusso interminabile. Tu vuoi alzarti, bere, dormire, annusare tuo figlio. Mettertelo addosso.
Provare ad allattarlo forse ?!  dunque potremmo metterci così vedi amore, ecco no, così no, aspetta, mi fanno male i punti. Allora di qua, proviamo, dai.
Ecco, ora succhia.
Entra qualcuno, ciaooooooo mamminaaaaaa, coi fiori e i cioccolatini,e tu tirati su, saluta, fai la riverenza.

Ripeti la sequenza per tre ore e poi sentiti dire che il pupo non si è ancora attaccato, che tu non hai abbastanza latte e che devi dargli l’aggiunta, perché se no son guai.

Magari, siccome puzzi o pensi di puzzare e non ti sei riuscita a lavare, e siccome viene la segretaria del capo, allora ti sei messa il deodorante subito prima dell’ora x, prima che aprano le porte, e il pupo non si attacca per quello.

“Ma non sono un po’ troppi?”
“E come faccio? Che gli dico? Poi ci restano male”

Invasione. Non esistono altre parole.

Se ti va bene partorisci in un posto dove puoi tenere il bambino vicino a te ma attenzione, anche durante l’orario di visita, che ho scoperto essere lunghissimo. Anche se i visitatori dicono che sono “solo” poche ore.
Questo vuol dire che un esserino venuto al mondo qualche ora prima si ritrova bersagliato da mille voci, mille odori, mille germi. Perché nessuno ha pietà, il branco prende e divora e tutti devono toccare l’altro corpo su cui si opera sopruso, il corpo nuovo del neonato che se ne sta  indifeso in attesa di segnali rassicuranti. Il corpo della madre, straziato di Creazione, non può che sentirsi fuori luogo, non adatto ad essere guardato. E non lo è! E’ un corpo sacro, va tenuto protetto per qualche tempo, va accarezzato, in penombra, va riconosciuto, amato, ricostruito. Con lentezza.
Il corpo del figlio, che non sa di esistere lontano dal corpo della madre, è attaccato all’unico odore che conosce che deve stare.

Le lampade, sti neonati infagottati, “sa signora, l’ipotermia”, ma dio santo attaccateli al corpo nudo della madre e altro che ipotermia!

Li lavano appena vengono fuori dall’utero, e non sarebbe necessario perché non sono sporchi, e poi li lasciano sporcare delle mani estranee, tantissime, che stropicciano le piccole dita, tantissimi odori diversi che lo confondono.

L’odore nauseabondo dei corpi anziani poco lavati, le colonie, i profumi, mani intrise di nicotina, alitosi da carie, fiati di alcol e sigarette, gomme da masticare, succhi di frutta, caffè, abiti sintetici, lacca per capelli, smalto, olio per il corpo, fondotinta, rossetti, plastica di palloncini, fiori recisi in acqua vecchia non cambiata…

Tutto in una stanza microscopica dove un bambino annusa il mondo per fiutare la sua Casa, sua Madre.

Io.
Io avevo vent’anni, poco più, e oggi so, fortissimamente, che quel parto fu un bel parto perché avevo vent’anni, nessuno mi credeva, nessuno mi sentiva, nessuno mi vedeva. C’erano due tizie che urlavano parolacce durante il travaglio ed avevano, grazie a Dio, tutto lo staff in turno attorno. Io ero stata dimenticata. E quella fu la mia fortuna. O il primo segnale verso i miei numi tutelari.
Il monitoraggio parlava chiaro (???) non avrei partorito prima della mattina successiva, sicuro, però già che sei qui, resta.
Io benedico quel caos che mi ha protetta. Quando da sola ho sentito la testa e ho fatto chiamare, nessuno, nemmeno allora, ci ha creduti, eravamo giovani e avevano deciso che non sapevo partorire.

Invece sapevo partorire come tutte le donne sanno fare a patto di non essere disturbate.

Ovviamente poi mi hanno obbligata a mettermi nella posizione a loro più comoda, a loro, non a me.

“Ma come faccio” “E come fai, ti siedi”

Un abuso di potere. Ah cattiva ragazza, hai voluto far tutto da sola fino a qui? E mo’ ci penso io a rimetterti in riga, a farti vedere chi comanda qui. Con la testa già in vista, siediti sulla sedia a rotelle e fatti mettere sul tavolo da macello, in punizione. Ovviamente mi venne praticata un’ episiotomia non necessaria, come non lo sono praticamente tutte. Non mi hanno nemmeno avvertita, perché tu partorisci, ma quello che succede sembra essere roba loro, stramaledetti. Parlano d’altro mentre ti tagliano la carne. Me li ricordo ancora. Una mutilazione. Una violenza. Se fosse accaduto adesso avrei sporto denuncia. Sono felicissima di leggere ogni tanto notizie di donne che lo fanno. Lo so ancora oggi dove sta. Se ci passo il dito, lo sento.

E invece se passo il dito dove la carne si è aperta da sola per la mia seconda bambina, no.

Lei è nata sul lettone di casa. Le gatte a fare la guardia sulla soglia, come si confà a due gatte di strega. Lui sul letto con noi e le ostetriche attorno, in una presenza costante, attenta e invisibile.

Il giorno del suo compleanno, pochi giorni fa, mi sono stesa lì, c’era la stessa luce, e ho sentito perfettamente che è stato tutto giusto. Non solo, ma ad un anno di distanza vedo chiaramente quanti pezzetti della nostra storia si sono incastrati perfettamente tra loro grazie alla scelta di partorire in casa. Molti aspetti della vita di una nuova famiglia sono manufatti artigianali che vanno rifiniti, smussati, levigati, lucidati, e spesso alcune parti richiedono un lavoro faticoso. Un parto in casa prepara a questo lavoro nella maniera più spontanea. Non ci sono sconti ma non ci sono intrusioni. E’ tutto crudo e luminoso esattamente come deve essere.

Quello che di più prezioso mi pare di vedere è che durante il travaglio io ero proprio io, lui era proprio lui, noi eravamo proprio noi. Il nostro modo di stare insieme, il nostro modo di litigare, il nostro modo di crescere, il nostro modo di toccarci, di fare sesso. Il nostro modo di essere felici e di scherzare.
Tutto mio. Tutto nostro. Di nessun altro.
La sensazione di competenza, di potere, di adeguatezza, di serenità che si produce nei genitori durante un parto in casa è un’assicurazione sulla serenità dei primi mesi di vita di un bambino, e forse anche oltre.

La sicurezza. Io non avevo paura di niente. E non avevo paura di niente perché non temevo di essere aggredita.

Una sicurezza che non è un proclama hippy, è provato che nel parto ospedalizzato si rischiano interventi non necessari anche rischiosi. Non smetto di pensare che in ospedale avrei potuto avere un cesareo. Acque rotte da 24 ore e cordone intorno al collo di solito vengono “risolti” in questo modo. Invece noi avevamo bisogno solo di tempo. Abbiamo seguito la profilassi come da protocollo, in casa. Antibiotico dopo 24 ore dalla rottura del sacco, amorevolmente somministrato appoggiate al tavolone del salone tra una contrazione e l’altra, perché a quel punto io e la piccola avevamo iniziato la danza verso la nostra metamorfosi. E poi il cordone sciolto durante la nascita.

Le ostetriche. Le mani operose ed esperte ma discrete, non me le sono mai sentite addosso ma sempre accanto.

Mentre addosso, da subito, ho avuto Lei. Il prodigio, lo sguardo nuovo e sapiente dritto nel mio. Eccomi qui.

Ogni tanto riguardo delle foto preziose scattate durante quelle ore e non mi sembrano vere. Non credo di essere mai stata più bella di così.
In casa mia, col mio accappatoio. Lui con la futa yemenita. Il tavolo imbandito come per una colazione infinita, come le colazioni dei giorni di festa. Le mie bandierine con le divinità del parto, l’olio di gelsomino, i datteri, il pane e olio.
L’acqua. Tanta. Come in ogni cosa sacra.

E il terzo giorno giunse la Paura, a fare il mio dovere.

Somiglia un po’ ad un’attesa di Solstizio questo stare qui, chiusa, avvoltolata nel tepore. Ad essere calda, col freddo fuori. Ad essere riparo per Lei che sta male. Faccio da riparo a Lei che sta male, ma per fare questo sono più vicina al mio buio, alla paura, alla fatica.
Questo stare chiusi in sé, anche se sembra un momento di maternità assoluta, apre i mondi sotterranei. L’inverno porta giù. E il Solstizio arriva col suo strappo: sembra l’inizio dell’inverno e invece è il ritorno della Luce. Porta Luce ma miete vittime.

Somiglia ad un’attesa di Solstizio questo stare perché siamo semi nella terra umida, e aspettiamo il Sole.

E dunque, il vaccino.

Al primo vaccino ci arrivo stordita come si deve, come è appropriato ad una mammalia che si rispetti quando ci si appresti a fare qualcosa che si sa per certo darà fastidio al cucciolo.

Al secondo vaccino ci arrivo meno stordita ma con un disagio più profondo e più strutturato: lo stato di ansia e stritolamento di budella dipende dall’intenzionalità dell’atto, ovvero mettersi in macchina e andare in un posto PER farle fare le punture.

Prendere una bambina sana, mia figlia sana, e metterla volontariamente su un lettino dopo il colloquio col categoria protetta di turno.
Per carità, sante categorie protette, ma magari ai colloqui vaccinali mettiamoci qualcuno che sia in grado di fornire, insieme a delle informazioni precise, anche un po’ di aria professionale e orientata al paziente così da ottenere un minimo garantito di sicurezza. Noi abbiamo altri modi di ottenere quelle informazioni e quindi pazienza, ma per molti altri, quasi tutti, quella è l’occasione unica per avere quelle informazioni. Dopodiché c’è Google e l’autismo.

Prendere una bambina sana, mia figlia sana, e metterla volontariamente su un lettino.
Poi. Guardarla dritta negli occhi mentre ti guarda dritta negli occhi e.
Urla.
Urla di stupore brutto e di dolore. Un dolore che tu sai, un dolore di cui tu conosci l’origine e sei lì a tenerla pure ferma e a dire stronzate, lei urla e tu senti muovere l’istinto: prendere a calci chi le fa del male…ah no.
Arrivederci.

Ecco poi dopo, fuori, mentre aspetti la mezz’ora di rito prima di andare via e la consoli, allora il battito torna un po’ più normale e capisci di che colore sono le pareti, chi altro c’è attorno, noti delle cose.

Noto che nessun altro allatta. Da dire c’è anche che gli operatori sconsigliano di allattare nei pressi della somministrazione del vaccino: prima meglio di no perché da sdraiati poi urlano e potrebbe tornare su, poi meglio di no perché urlano e se c’è una manifestazione allergica magari gli va di traverso, si strozzano, un macello. Non so dire quanto siano queste precauzioni sensate e scientificamente più valide dell’effetto anestetico e calmante della santa santissima tetta. Noi comunque trasgrediamo, la tetta la prende prima ET dopo, se mi sgridano gli improvviso qualcosa e in ultima istanza, dato che non ce ne approfittiamo mai, gioco eventualmente il jolly: guardi suo padre qui presente è pediatra. Sottotesto: famo come ce pare e tu in caso si metta male sei salvo.

Noto i poster informativi. Quello sul meningococco è chiaro e ben fatto, poche parole, quelle che servono, pochi colori, un solo font (incredibile!) e l’immagine degli orsetti.
Una fila di dieci orsetti, nove sorridenti dritti dritti, uno sorridente caduto.
Morto.
Perché su dieci bambini che contraggono la meningite, uno muore.
(E parecchi riportano comunque danni permanenti bruttarelli).

Noto un altro poster, un disastro grafico incomprensibile. Ci concentriamo su questo. Pur avendo noi a cuore la questione dell’ignoranza profonda dilagante che sta facendo abbassare la percentuale di bambini vaccinati, e quindi pericolosamente riproponendo la presenza di alcune malattie, ci mettiamo a fare battute sull’incapacità comunicativa del ministero. Che è un problema reale secondo me, però tra uno buono e uno cattivo, noi abbiamo scelto il cattivo. E se noi siamo capaci di questo, figuriamoci di cosa sono capaci quelli del movimento contro i vaccini.
(Già la connotazione di “movimento” è inquietante. Nelle cose di scienza non ci sono punti di vista, c’è l’evidenza scientifica e basta. E invece stiamo qui ancora a discuterne, in un paese in cui si è dato modo a dei giudici di sindacare l’opposto di una verità scientifica).

Ma io posso arrivare a capire alcune istanze del movimento antivaccinale. Si, posso.
La preoccupazione concernente il farmaco, io la capisco. Condivido un certo sospetto nei confronti dei farmaci e dei medici. Nel corso degli anni ho attraversato fascinazioni per diversi stili di cura e felice come una pasqua dopo essere passata perfino per la cristalloterapia vivo felicemente immersa nelle certezze scientifiche, sia che riguardino farmaci di sintesi, sia che riguardino le sacre erbe della sacra Terra, sia che riguardino l’effetto placebo. Le conoscenze che si integrano mi esaltano, la verità scientifica di alcune pratiche che ci racconta l’etnobotanica mi esalta, mi esalta capire quali tradizioni di cura erano simboliche e quali no. Mi esalta come gli antichi utilizzassero con dovizia l’effetto placebo e quanto noi non siamo in grado di utilizzarlo avendo perso la fede. Qualunque fede.

Ma muoversi in questi terreni richiede un sacco di umiltà.

Stiamo cercando di operare una rivoluzione culturale in cui la nostra personalità ha più valore, in cui sentiamo che le nostre scelte valgono di più, cambiano le cose, lasciano impronte nel mondo. E questo, da sé, sarebbe auspicabile.
Non riusciamo però a farlo senza smontare tutto indiscriminatamente. E’ un moto un po’ adolescenziale, in cui il bisogno di affermare la propria identità e le proprie competenze deve necessariamente passare per il radere al suolo ciò che fino a quel punto è esistito. La possibilità di cambiare punto di vista in maniera meno assoluta e più lenta ma più ponderata è reso impraticabile dalla smania del sentire di aver dato una svolta alla propria vita prendendo decisioni forti e indipendenti.

Abbiamo bisogno di sentire che gestiamo la nostra salute in maniera autonoma. Il vaccino fa paura, è una somministrazione invasiva su un paziente sano. La medicina preventiva fa paura, non si capisce di cosa è fatta perché per quanto rifiutiamo l’ipermedicalizzazione, siamo in realtà in cerca di rimedi solo ed esclusivamente di fronte al sintomo. Se non vedo un sintomo, non cerco cura. La prevenzione è misteriosa.
Sul contagio non abbiamo le idee molto chiare, basta osservare in quanti scelgono la terapia preventiva a base di mix di organi interni di anatre portatrici sane di influenza di tipo A, rispetto a quelli che sanno che i “malanni stagionali” sono virus che si diffondono per contagio e che questo si argina con pratiche igieniche e accortezze “sociali”. Accortezze facili facili tipo lavare le mani e non favorire il contagio. Ma tu prova a dire a chiunque di lavarsi bene le mani appena entrato in casa tua e/o di non venire a trovarti se sta poco bene e sicuro ti pigliano per paranoico, mentre è normale per tutti “stimolare il sistema immunitario”, frase numero uno nei piani marketing della stagione inverno delle case produttrici del naturale che vi sembrano tanto etiche. Parlo di cose che so: le ho fatte tutte).

Tutte le idee sbagliate che circolano sui vaccini sono sempre le stesse da tanti anni e continuano a non avere uno straccio di prova scientifica che sia una prova come dio comanda, eppure infestano come il colera nell’acqua di soho.
Si legano alle paure, sacrosante, di tutti noi. Sono i demoni della modernità, dato che non crediamo più ai demoni di un tempo, non abbiamo più le storie del terrore attorno al fuoco e allora quelle vengono sostituite da “io conosco uno che”, “io ho visto dei bambini che”, “io ho letto che”. I fatti sono i nemici della conoscenza. Sempre.
Sono idee che entrano in risonanza con le cose che temiamo di non poter controllare, e infatti ci inventiamo cosmogonie di poteri che ci controllano e complotti mondiali. Ma il complotto più potente di tutti è sempre stato l’ignoranza e da che mondo è mondo, il non sapere insieme alla paura hanno creato solo orrori.

Vorrei non sapere più di un bambino-orsetto caduto, e invece ogni tanto succede.

Questa adolescenza dell’umanità non vorrei mai portasse ad una futura necessità di pentimento. Vorrei che questo bisogno di essere in maniera diversa nel mondo portasse consapevolezza. Scegliere di vivere in una maniera più naturale e tollerabile sia per noi che per il pianeta non dovrebbe prescindere dalla scienza, non dovremmo cercare di tornare all’età della pietra. E in quel caso, se doveste sceglierlo, vi voglio vedere nelle capanne, senza smartphone, senza abbigliamento in cotone biologico pagato a peso d’oro. Vi voglio vedere senza medicine, nemmeno “solo quando serve”, vi voglio vedere pronti alla selezione naturale, perché non ci pensate mai, ma i prescelti, quelli da non replicare, per Madre Natura, potreste essere voi.

Post scriptum:
Mia figlia ha iniziato a lallare (e di brutto!) il giorno dopo della somministrazione della seconda dose di pneumococco ed esavalente. Secondo lo stile di correlazione causale di due eventi correlati invece in maniera casuale e temporalmente vicini, tipico della filosofia antivaccinale, potremmo attribuire ai vaccini lo straordinario potere di far lallare i bambini, uoah.

Benedetta crisi

Ieri compiva sei mesi. Avrei voluto la giornata del mulino bianco, io coi riccioli setosi e un abito scollato, lei col vestitino verde bosco pulito, sorridenti e abbracciate. O al limite anche una delle nostre giornate mammifere tipo, anche un po’ zozze, ma avviluppate l’una all’altra, in comunicazione sincrona e perfetta.

Invece no, è una giornata di crisi. E perché è una giornata di crisi? Perché lei ha sei mesi, e cresce, e io ho sei mesi insieme a lei, e cresco.

La crisi è, precisamente, un giorno che arriva a cicli più o meno regolari ogni tot di giorni in cui, dopo la crisi precedente, ci sintonizziamo sempre meglio, comunichiamo sempre meglio, arriva la conquista di qualcosa -di solito competenze nuove sue e consapevolezze mie- tempi nuovi, indipendenze, passi.
Arriva l’idillio, una manciata di giorni in cui tutto è perfetto.

E poi ta-daa. La crisi.

La crisi è quando il modo che hai usato fino a quel momento scricchiola ma tu continui ad usarlo perché è quello noto e, per questo, il più facile da mettere in atto. La crisi viene apposta per farti scricchiolare quello che c’era prima e farti rifare tutto daccapo, o quantomeno fartici rimettere le mani.

Lei.

Sei mesi fa lei ha rifatto il Mondo daccapo. Ha cambiato tutto. Niente è come era. Alcune cose sono scomparse, altre sono venute. Quelle che c’erano sono diverse, alcune hanno cambiato di posto, altre sembrano perse, poi si ritrovano, ma uguali uguali non sono nemmeno più quelle ritrovate. Certe altre stanno lì, e non so più cosa farci, e non mi ricordo nemmeno più cosa ci facevo prima.

Lei è crisi.

Come si può immaginare di avere in casa e sempre appiccicata addosso una personcina che è Crisi allo stato brado, rivoluzione pura, e scampare La crisi? Dunque era per mantenere tutto così come era prima che uno fa un figlio? Era per conservare i miei tempi e i miei spazi esattamente come prima che ho Voluto che Natura facesse la sua volontà?

Ciclicamente arriva la crisi, e invece che festeggiare e basta, festeggiamo in crisi. Allora già che ci siamo, festeggiamo pure la crisi.

Sei mesi di vita nuova in cui abbiamo imparato ognuno da solo e poi a coppie e poi tutti e tre un sacco di cose nuove, tra cui a benedire questa crisi che ogni volta -zac- ci fa fare un saltino in avanti.

Mangio di corsa

Mangio veloce.
Non sempre. Mangio veloce perché c’è Lei.
Sta lì e non so quanto resterà lì calma, se è calma. Se non è calma mangio veloce perché non so quanto resisterà prima -non di urlare, non di piangere- prima di dare segni urgenti di “prendimi”. Se sta in braccio a me mangio veloce perché è scomodo. Se sta in braccio a lui mangio veloce così che mangi lui. Se dorme mangio veloce perché così posso fare qualche altra cosa da sola.

Bugia.

SE mangio veloce non è perché c’è Lei. E’ una bugia. E’ dare a Lei qualcosa che non la riguarda. Se mangio veloce è perché vado di fretta. Fretta di cosa non si sa. La fretta non ha ragione altra che la nostra ansia, di cosa non si sa, l’ansia innata, inculcata, ficcata dentro a pressione da giorni consumati correndo. Perché non si sa. Sembra che se non corri sei pazzo, o stupido.
Di volta in volta si appoggia la responsabilità di questo correre su un elemento esterno: nessuno, mai, dirà a sé stesso mangio di corsa per abitudine, è una cosa brutta, non so perché lo faccio e non so smettere.

Ricapitoliamo.
Mi capita di mangiare velocemente un pasto intero, a volte, le volte che mi prende il fuoco e devo fare mille cose e sulla scia corro anche col cibo. Male. Molto male. Quelle sono volte in cui o succede qualcosa che non è Bello oppure rimango mortificata e insoddisfatta.
Mi capita più spesso di mangiare di corsa a un certo punto o di iniziare di corsa e sentire distrattamente che “è per Lei”  (potrebbe piangere, deve essere allattata…no neanche, non sono pensieri, se li guardo sono pensieri vuoti, pensieri di fretta semi cancellati come le scie dei corpi in corsa dei supereroi nei fumetti). Mi capita poi di resettare il respiro e capire che no. Sto correndo. Perché non si sa. Ma di certo non è per Lei. Allora respiro, spesso faccio dei piccoli no con la testa. No no no no. Respiro e zac, torno. Perché significa che ero altrove, non qui e non ora. Ero dopo, o ero prima.
Ogni tanto faccio questo reset quando mi sembra di DOVER mangiare di corsa PERCHÉ SE NO LEI. Lei cosa?  Lei sta qui e ora, tutta qui e tutta ora, Lei non chiede fretta, chiede tante cose ma la fretta quella mai. Basta guardarla per capire come si fa.

Fatto il reset di cui sopra, impegnati un po’ di neuroni, tutto scorre. Voilà, si mangia.
E pensate un po’ certe volte nemmeno serve farlo, certe volte viene tutto bene.

Allora, non è che viene tutto da solo, è un’arte. Questo è fuori di dubbio. Mangiare, lavarsi, pettinarsi, fare tutto è un’arte, soprattutto i primi tempi. Ci vuole organizzazione e calma. Ci vuole di essersi scelti qualcuno di cui fidarsi e con cui ridere e con cui urlare, ma solo poco, e senza volume, che c’è er pupo.

Adesso è così, questa cosa di mangiare. Ma quando ero una donna indipendente, tutta presa da me sola, tutta incernierata dentro la mia soffocante ma avventurosa vita professionale, quando ero tutta ufficio, aperitivi e notti ruggenti…ah! come mangiavo con calma allora!

Mangiavo in una sala mensa grigia grigia velocemente, sperando che finisse presto e cercando di essere grata per quel cibo anche se era proprio tutto triste, e i tavoli sporchi e c’era odore di robacce riscaldate al microonde e di finestre mai aperte. Mangiavo di corsa al ristorante perché dopo c’era la riunione, o la telefonata, o la videoconferenza, o il file da finire, e mangiavo col file che scorreva dentro gli occhi tipo Google glass. Mangiavo un gelato o una pizza di corsa di corsissisima perché ero andata lontana dall’ufficio per non incontrare nessuno e non parlare con nessuno e cambiare aria e però restava poco tempo per il cibo e allora trangugiavo tutto prima di ripartire e correre per non timbrare in ritardo. Mangiavo davanti al computer per finire un file, o una telefonata, o una presentazione, o per stare sola, o perché ero troppo giù per uscire. Mangiavo in un bar in cui si andava perché costava poco, tutti accalcati, con colleghi brutti e cattivi a dire cose che non volevo dire e sentire cose che non volevo sentire. Mangiavo in queste tavolate lunghe coi capi e i consulenti perché ogni tanto tocca, e di mangiare con gente che non amo io non sono tanto capace, stringo i denti e mi viene mal di testa. Mangiavo, nelle giornate campali, in sala riunioni, durante la riunione, quando qualcuno decideva che dovevamo stare tutti insieme e mangiare la roba del catering ordinato apposta per voi, perché fa tanto famiglia e la riunione non si lascia, no no; mangiavo in ostaggio.
Qualche volta meno male mangiavo con le uniche amiche, tre outsider. Quelle volte arrivavamo al ristorante come in guerra, a testuggine, per non subire l’invasione di tavolo da altri, e stare un po’ solo noi, e ridere un po’, iniziare sol sospiro e finire con vabbè rientriamo, se no ci tocca chiedere permesso.

Oggi ho cucinato i ciuffi delle carote in una frittata. L’ho servita con un cucchiaino di salsa di tartufo. Accanto ho messo due carote fresche e un bicchierone d’acqua. Ho cucinato con Lei portata in fascia dietro che si stira per sporgersi e guardare, che parlotta e ogni tanto ride, che allunga le mani, mi tira i capelli, mi lecca la schiena, starnutisce e mi spruzza di bava.

Mi ricordo perfettamente il sapore di ogni cosa.

E’ il primo figlio, VERO ?!

E quindi adesso me ne vado in giro con questa bambina sempre addosso. Sono esposta come tutti i genitori a qualsiasi (qualsiasi!) domanda sul piccolo essere. Queste vanno dall’esitante approccio “…bimbo o bimba?” al paradigma della visione bimbo-tiranno “…e vi fa dormire? E’ BUONA?!” . Sempre interessante la grammatica emotiva di queste domande, i punti in cui vengono incastonate, i tempi, in risposta a cosa e prima di quale altra domanda.
L’analisi conversazionale è sempre stato uno dei miei vizi e feticci, è vero.
Io sono troppo poco leggera, è vero.
La gente non sa davvero come impegnare un silenzio. Anche questo è vero.

Una delle più vaste categorie di domandatori è quella dei giudicanti, che potremmo definire delle giudicanti perché costituita esclusivamente da donne. Sono quelle che la sanno lunga, ah! come la sanno lunga loro nessun altro! Che hanno lo sguardo saputello e gli occhi stretti strizzati. Spesso -per essere anche un po’ Lombrosiani ché alla fisiognomica io in fondo in fondo un po’ ci credo- hanno le labbra sottili e sono non magre, ma secche. Queste la sanno così lunga che qualsiasi cosa tu dica, loro la sanno, e non solo la sanno, la sapevano già, ma da mò! Riescono ad essere inopportune SEMPRE, pure se ti stanno mostrando una casa vacanze che non è la loro ma stanno facendo un favore ad un amico. Allora tu con la bimba dormiente in braccio la segui sorridente attraverso queste tante porte e questo cattivo gusto tutto casa-al-mare-bianco-giallo-blu-corde-conchiglie-mappedeiventi. Speri faccia presto, hai fame. Ma ecco che s’arresta, qualcosa non quadra.
‘Sta bambina sarà da “metterla giù”. Sarà da “sistemarla”. Il tuo compagno poi, perché non è stato ancora così svelto da porgerti il salvamamma passeggino?!!

E attenzione:

“non vuoi sistemarla?”

“no no non mi serve, sto benissimo così”

“ahhhhhh è il primo figlio, VERO?!”

Non si contano più oramai le volte in cui mi hanno chiesto se era il primo figlio , (VERO?!) e che me lo abbiano chiesto PERCHÉ la tengo molto a contatto con me. O dato che la bacio molto. O dato che passo e voglio passare molto tempo con lei. O dato che non tollero che pianga. O dato che dorme con me e il padre…

Allora mi chiedo se a fronte di un ragionevole divario di esperienze tra primi e secondi figli, non ci sia da qualche parte sottintesa la teoria che i secondi figli vengano abbandonati un po’ a loro stessi causa calo di hype nei confronti della genitorialità. E allora magari è per quello che noi primi figli abbiamo avuto più fotografie da piccoli, ma meno vacanze da soli fatte senza lotte e disperazioni. Tutto può essere, suvvia. Ma dire ad un neogenitore che “è il primo figlio VERO? perché si nota una relazione a stretto contatto mi fa una tristezza immensa. E poi dai, scendiamo nel dettaglio. A vedermi magari non posso sembrare più giovane,però ok non dimostro 20 anni ma nemmeno 50. Quindi se ci fosse un secondo figlio dove dovrebbe stare se non in vacanza con me?! Come potrei rispondere dunque?
“No non è la prima, l’altro è in montagna coi figli”.
“No non è il primo, l’altro ha sei anni e sta in interrail”.
“No, l’altro l’ho dato via, ma comunque lo coccolavo molto da piccolo”.

Ma la domanda è solo una domanda, una domanda come un’altra. Una domanda che io analizzo così nei dettagli solo perché non è la domanda ad essere troppo stupida, ma la mia risposta ad essere troppo complessa.

No. Non è la prima mia cara signora. L’altro è morto a quattro anni per leucemia.

E si può dire? Non si può dire.
Così tanto non si può dire che non esiste nemmeno una parola. Tanto è tabù la morte di un figlio che non abbiamo nemmeno una parola, nemmeno per la Vergine Maria c’è stata una parola, ma solo perifrasi.
Ci sono i vedovi, le vedove, gli orfani. E poi quelli con la perdita che non si può dire.

Tanto è tabù la morte che io stessa all’ennesimo “è il primo figlio, VERO” spesso ho detto “si” e ogni volta un battito di ciglia chiedeva scusa per quella negazione. Si dopo si. Negazione dopo negazione. Cercando di difendere gli altri da quel dolore e me dal dover spiegare quando non addirittura consolare, si è costruito un arginetto di detriti e sporco in quel fiume che scorre dentro in profondità. Andare e venire dal conoscere il profondo motivo di scelte come questa e nonostante tutto essere ancora capaci di rimproverarsi per averle fatte.
Può essere che come spesso accade certi pesi debbano essere semplicemente trasportati da un punto ad un altro della vita, e poi mollati. Può essere che il senso di tutto questo sia stato fare un altro pezzetto di strada, esaurire il motivo di esistere di questi bagagli e magari imparare ad essere quelli che dai tabù si liberano.

Può essere per questa storia qui che qualche giorno fa ne ho incontrata un’altra. Un’altra donna che non si può dire, come me. Ho parlato con lei in una lingua nuova che veniva fuori da sola, senza dire neanche una delle cose che di solito dico agli altri  e dicendone altre che non ho mai detto a nessuno. Come se, al prezzo di non avere una sola parola per dirci, avessimo una lingua a parte per raccontarci.
E’ tanto bella. L’ha detto. L’ho toccata. Poi a me sembrava di non poterla mai lasciare andare, ma non per disperarci insieme, no a quello non ho pensato, volevo solo trattenerla. La volevo guardare e guardarmi perché facevamo le cose a specchio, come in un gioco di bambini. Sarei stata lì a guardarla per ore.

E c’era Lei che intanto faceva le sue cose. Chissà che cosa ne farà Lei di tutta questa storia, chissà questa storia che storia diventerà nelle sue mani.

 

Aiutami a fare da sola

Da qualche tempo la guardo rotolarsi sul tappeto.
Cercare di andare dove decide. Vederla che si gira da sola mi sembra ancora un superpotere.
Quando l’ha fatto per la prima volta io non l’ho vista.
Sono una mamma “ad alto contatto” e non l’ho vista.
Ero lì accanto ma lei si è girata e io non l’ho vista. L’ho vista dopo. A cose fatte. L’ho guardata che era supina e quando l’ho cercata di nuovo con lo sguardo era prona; gomiti e avambracci a terra, faceva il cobra con quel collino teso, il mento in alto, gli occhioni spalancati e l’espressione vittoriosa.
Quanto è passato tra i miei due sguardi? I millenni di evoluzione in cui abbiamo costruito delle nuove competenze. La memoria di muscoli e istinto.
Non ho visto mentre lo faceva. Mi ricordo bene lo stupore, anche un po’ di straniamento, tipo “ok l’ha girata lei”, l’unica altra persona presente. Non l’ha girata lei. Si è girata da sola.

Immaginavo che quando fosse successo io sarei stata lì a farle il tifo, a supportarla, a contenerla. A sentire il brividino che dice: “sta per fare una cosa importante”.

Invece io raccoglievo resti di un piccolo rito bello e lei si girava. Io tornavo nel mondo reale dopo una gitarella nel non luogo dove le radici sono più profonde e lei si girava. Da sola.

Ora sa girarsi bene e rapidamente. Per un po’ di tempo però rimaneva col braccio incastrato sotto la pancia e protestava. E io la aiutavo. E ogni volta che la aiutavo pensavo alla prima volta, e sorridevo di quel mio aiuto, mi sentivo un po’ ridicola.
La prima volta io non l’ho visto quel braccio. Lei si è divincolata da sola. Non ha protestato. Io ero vicinissima e lei ha fatto quel che doveva fare da sola.

Mi ha scosso e ci penso spesso.

Mi ha voluto subito mostrare questa cosa. Prima dei quattro mesi di vita fuori dalla mia pancia lei mi ha fatto vedere cosa stiamo facendo insieme.
Abituiamoci a stare insieme così, tu ed io.
Nel prodigio di costruire l’indipendenza dentro alla sicurezza e al conforto. Un contenimento ininterrotto, dentro il quale esaurire il tempo della dipendenza reciproca (perché è reciproca) e poi lasciar(si) andare.

Tu. Piccola strega. Che mi insegni il mondo daccapo, smussi gli angoli, premi sulle ferite fino ad aprirle così tanto che poi diventano pelle nuova.

Puericultura collosa

Ieri è stata una brutta giornata. A cui è seguita una brutta nottata. A cui è seguito un brutto risveglio e qualche brutta ora di una brutta mattina.
Poi c’ho questo amore grande che salva la vita, anche se arriva in ritardo su qualche brutta ora di qualche mattina, però salva la vita sempre e allora per celebrare e siccome ero rimasta senza colazione sono andata a fare colazione fuori. Volevo un cappuccino imperiale, con la schiuma soda tipo Guinness e un cornetto grosso, ben cotto e profumato. Ho legato la piccola in fascia, davanti, ché dietro ancora non mi sento sicura, e sono uscita. Andando ho chiamato un’amica, abbiamo parlato di figli, di vacanze, di cibo, di vestiti e ci siamo date appuntamento. Un nuovo paradigma di conversazione, gratificante e rassicurante e che soprattutto non necessita la frase “beviamo una cosa”. Ci sono stati tempi in cui non potevo pensare di vedere qualcuno senza “bere una cosa”. Sono sicura che là fuori, tutti continuano a vivere così, senza di me. A bere cose per dirsi cose.

Cammino, distendendo piano piano tutti i muscoli nervosi. Arrivo al bar, mi innervosisco perché uno mi passa davanti nella fila e mentre aspetto il mio nuovo turno ho il tempo di pensare a quanto divento iper reattiva quando sono nervosa e a quanto questa iper reattività fosse una norma mesi fa. Sono stata molto arrabbiata nelle ultime ore e adesso tendo a scattare, tollero pochissimo questa cosa perché mi sto disabituando; è complesso mollare le abitudini, soprattutto quelle cattive. E nel periodo in cui le lasci quelle protestano perché non ne vogliono sapere di sloggiare, ed è un gran casino.

In questo tumulto conquisto cornettone e scontrino e arrivo al bancone. Il tipo fa cappuccini splendidi ma chiacchiera troppo. Tutti in questo quartiere chiacchierano troppo e questo ti impedisce di essere incazzato, di stare al bancone di un bar zitto e adombrato. Qualcuno ti strapperà sempre dalla tua solitudine qui. Io ero tutta presa dalle mie lotte interiori, momento delicatissimo. Volevo solo sciogliere tutto dentro la schiuma del cappuccino, me lo volevo sentire sui baffi e leccarlo senza dare nell’occhio.

Sento il suo sguardo posarsi sulla bambina in fascia, è un attimo:

“E certo stanno bene là dentro però poi quando te li scolli”

Continua: “mi fio lo tenevo sempre io e nun me se scolla manco mo’ invece mi fia la teneva sempre mi moje e je sta sempre incollata”.

Incollati. Scollati.

Io avevo questo sorriso tipo paresi. Lo guardavo e sorridevo. Con gli occhi tondi e vuoti. Ma perché.

Me ne sono andata via un po’ basita, con la faccia piegata di lato tipo cagnolino. Ma perché.

Il cappuccino era divino. Ma perché.

Perché devono sempre rovinare tutto. Perché dovete tutti parlare.

E mentre andavo via mi immaginavo sti ragazzini con la superficie collosa tipo quella delle buste. La colla che reagisce al contatto umano. Se li tieni nel passeggino e nell’ovetto e nella culla e gli fai venire la plagiocefalia e la calvizie localizzata sono salvi per sempre, mentre se te li tieni addosso la colla reagisce, chissà col sudore magari e zac, sei fottuto.

Te se’ncolla pe’ tutta ‘a vita er pupo.

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Violenza intraspecifica

Mi sono rotta.
Mi sono rotta e non mi riesco a riparare.
Mi sono rotta un pezzettino che funzionava, e funzionava non si sa bene perché. Forse come quel famoso calabrone che vola solo perché non conosce le leggi della fisica. C’erano le mie leggi, quelle cose che uno è grande e quindi lo sa come è fatto. Sai cosa ti va bene e cosa no. Allora c’erano queste leggi, queste regole scolpite. Siccome però era un periodo in cui tante regole e muri crollavano, allora mi sono fatta trascinare da questa sensazione bellissima di abbassare le difese, di aprire le porte. Evviva, braccia aperte e baci e abbracci. Pure se le mie regole dicevano no no e no: categoria pericolosa, tenersi alla larga. Educata e buonina, ma alla larghissima. E invece no, l’amore trascina tutto e diciamocelo, buttare giù i muri contiene quel sacro furore che ti fa sentire libero e potente. Buttare giù i muri, dannati loro, è bello. Pure, per una come me, è bello dirsi: stronzetta, ti eri sbagliata. Lo vedi che ad essere così roccia ti potevi perdere questa cosa bella che ora hai? Oh. Ma che piacere a sorpresa può giungere, talvolta, dal violare le proprie regole di difesa di quel fortino con dentro la fiducia. Pensavate fosse
il fortino con dentro il cuore?! Non esageriamo. Eppure un po’ di cuore ci doveva essere finito.

Mi sono rotta e un po’ di cuore c’era finito,stranamente, a dirmelo è la rabbia bruciante che distrugge tutte le strade. Tutte le strade tramite le quali cerco di arrivare all’uscita di questo labirinto di odio. Tutte le strade che cerco per liberarmi di questa bruttezza che sono stata obbligata a guardare.

Mi sono rotta e non è vero che va tutto bene per forza quando hai un miracolo di mammiferino da annusare. E’ vero invece che ti arrabbi di più, che senti più aspra la ferocia, che reagisci più violentemente al pericolo. Perché è dall’inizio che vado dicendo che sono rotta  e che non mi riparo ma non sono una cosa che si rompe, sono melamammalia. E come tutte le bestie, una volta subita l’aggressione, certo non porgo l’altra guancia né offro ancora il collo.

Mi sono rotta e so che al pericolo l’istinto reagisce con la fuga. Il pericolo chiede una più stretta protezione dei cuccioli e l’allontanamento dalla fonte del pericolo.

Mi sono rotta perché sono stata aggredita e non mi riparerò perché è con il pericolo e l’istinto di fuga che combatto.

mammal blues

Abbiamo dormito abbracciati, lasciandoci e tenendoci, tutti e tre, a due a due, tutti, e poi tutti insieme in tre, arrotolati, sovrapposti. Mani e piedi e seni e pance e piedini, manine, guanciotte, bocche grandi, piccola bocca profumata. Abbiamo un po’ grugnito, sorriso, aggrottato la fronte per una tetta che scappa, per una mattina che chiede il risveglio, per la voglia di grufolare ancora un po’. Per il nostro tre che non si vuole mai sciogliere. Il nostro due ha appiccicato al nostro tre questa fame di pelle e di odore. Quanti millenni sono che ci annusiamo, noi?

Allora la mattina sa meno di uffa poteva durare ancora un po’
, Ottobre è meno cattivo,forse, stavolta.

Lei che apre gli occhi e sorride. Un grande grande sorriso mentre ci cerca. Ecco lei, ecco lui, bene siamo tutti. Posso sorridere.

Questa fiducia qui, questo affidarsi, questa felicità, ogni mattina, mi fa girare la testa. La guardo e mi gira la testa, letteralmente.